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delirio

Ha piovuto incessantemente per ore ma, tornato il sole, l'afa si è fatta nuovamente sentire perciò la sera si va lo stesso all'arena.

Ora sono a letto, il dottore viene ogni giorno a scoprirmi il torace, a tastarmi le gambe.

Mio fratello è tornato a scuola ed io sono ancora a letto.

Gli zii gironzolano intorno al mio letto e parlano sottovoce con la mamma che piange: la febbre reumatica mi tormenta.




Momenti di lucidità si alternano a momenti di delirio, la realtà s'impasta con i sogni, il presente con il passato.
Le ombre sul grande specchio dell'armadio di fronte al lettone prendono forma. La nonna, tutta vestita di nero, sposta con le mani i carboni ardenti da un fornello all'altro della grande cucina economica piastrellata di bianco; la zia ravviva il fuoco sventolando un pezzo di cartone.
Venti orfanelle in fila per due, avvolte in mantelline grigie, col capo coperto da cappellini anch'essi grigi, recitano il rosario insieme alla suora, abito nero lungo fino ai piedi e capo coperto da un cappello bianco con due grandi ali laterali che le nascondono tutto il viso.
Uomini uomini uomini e tutti visi sconosciuti.
Il suono delle trombe e tromboni diventa metallico, lame che cozzano tra loro.
Chiudo gli occhi per la paura.








Il fuoco si fa sempre più vivo, più grande; carpisce e brucia la lettera che mio cugino Silvio ha scritto dal Brasile a zio Umberto che ora piange accanto al mio letto.

Mio padre dorme. 
Russa.
Una torma di ragazzini vocianti gli saltano intorno facendo cigolare le reti del letto.

Il prete e quattro chierichetti aprono il corteo.
Segue il carro funebre, trainato da quattro cavalli bianchi, seguito dai mie zii e i miei cugini più grandi, solo uomini.
La banda suona una lugubre musica che mi martella il cervello.
La zia morta mi accarezza il capo.
No! zia, no!
Tremo di terrore.
Tutto diventa buio e freddo intorno a me.

Due avvinazzati concludono la loro lite fuori della cantina.




 
Mi addormento.

In ginocchio sul cuscino strappo la carta da parato dalla parete a cui è appoggiato il mio lettino e con meticolosità ripongo pezzetto dopo pezzetto nella tasca dei pantaloni del babbo che con il suo vicino costruisce una radio.

La radio suona una allegra musichetta.
Una grossa VdR scherma l'altoparlante fra due antine luccicanti piene di bottiglie di liquore.
Ora la radio gracchia, ronza, sibila.

Il postino fischia e mi chiama con la sua voce roca.

Tanti aghi si muovono veloci su di una stoffa bianca che si trasforma in colorati arabeschi, una miriade di bottoncini di stoffa mi cadono addosso e la voce della mamma si fa sempre più alta.

Me ne sto con gli occhi umidi, con in mano le calze di seta smagliate della mamma, dietro la porta a vetro schermata da pesanti tendine che zio Emilio tiene sempre giù per celare il suo laboratorio alla vista dei parenti.

Le lacrime scendono calde sul mio viso esangue, bagnano il quaderno dagli angoli accartocciati, le mani del babbo si trasformano in nodosi bastoni.

Un boccone di baccalà che non riesco ad inghiottire mi fa tossire.

Tossisco tra le braccia della mamma che mi asciuga la fronte imperlata di sudore.